È colpevole del reato di dichiarazione infedele, di cui all’art. 4 del D.lgs n. 74/2000, il socio che omette di indicare nella propria dichiarazione Irpef le somme ricevute dalla società non espressamente qualificate come restituzione di finanziamenti o distribuzione di dividendi.

Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione penale, sez. III, con la sentenza n. 39766/2022 dello scorso 12 ottobre, con la quale ha confermato quanto statuito dalla Corte d’appello di Firenze, ritenendo inammissibile il ricorso in Cassazione proposto dal socio che era stato condannato – con beneficio della sospensione condizionale della pena – ad un anno e sei mesi di reclusione per il reato di dichiarazione infedele.

In particolare, la difesa del contribuente lamentava che la decisione della Corte di secondo grado aveva ritenuto responsabile l’imputato per omessa indicazione di elementi attivi soggetti ad imposta per euro 1.462.066,60 – con un’evasione Irpef pari ad euro 617.758,04 ed IVA per euro 292.413,32 – senza individuare, tuttavia, l’imposta evasa e senza contare che parte della suddetta somma era stata utilizzata per rimborsare finanziamenti precedentemente erogati.

La Corte d’appello di Firenze, a riguardo, aveva evidenziato la mancanza di elementi certi sia in ordine alla esecuzione di finanziamenti da parte del socio/contribuente alla società, sia qualla qualificabilità delle somme corrisposte come restituzione di tali asseriti finanziamenti, sia riguardo alla qualificabilità delle medesime somme come “dividendi” (seppur occulti) sottolineando la mancanza della contabilità di detta società, mancanze che non consentono di qualificare i movimenti di denaro tra socio e società.

Il D.lgs n. 74/2000, all’art. 4, punisce con la reclusione “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti […]”. 

La Corte di Cassazione penale, nel caso di specie, ha statuito che: “La qualificazione a titolo di mutuo oppure di apporto del socio al patrimonio della società dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, e la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, deve trarsi dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi, dovendosi, inoltre, avere riguardo, in mancanza di una chiara manifestazione di volontà, alla qualificazione che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio, da reputarsi determinante per stabilire se si tratti di finanziamento o di conferimento, in considerazione della soggezione del bilancio all’approvazione dei soci”. 

I finanziamenti dei soci, infatti, devono essere obbligatoriamente provati ed iscritti nel bilancio della società stessa, in quanto costituiscono delle passività, posto che non tutti i versamenti fatti da un socio a favore della società possono essere qualificati come finanziamento soci, potendo trattarsi di versamenti in conto capitale o restituzione debiti.

Nel caso di specie mancavano elementi univoci che consentissero di qualificare i versamenti a favore del socio come rimborsi di finanziamenti, ovvero di occulta distribuzione di utili.

Di conseguenza, la Corte di legittimità ha dichiarato la manifesta infondatezza dei rilievi sollevati dal ricorrente a proposito del rigetto delle censure dallo stesso fatte valere con i motivi di appello, condannandolo altresì all’onere delle spese del procedimento e al versamento dei una somma pari ad euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. 

commento a cura della dott.ssa Sofia Tomasi